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Revista Electrónica de Ciencia Penal y Criminología
RECPC 02-r1 V.O. (2000)
ISTITUTI, MODALITÀ E TENDENZE NEL SISTEMA DELL’ESECUZIONE PENALE ITALIANA: ELEMENTI PER UN CONFRONTO CON L’ESPERIENZA SPAGNOLA
 Domenico Arena
Subdirector de la prisión "Porta Coelli" de Roma
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SUMARIO:
1. Premessa e considerazioni generali
2. Il trattamento penitenziario
3. Il laboro dei detenuti
4. Considerazione conclusive

1.- Premessa e considerazioni generali

    Gentilissimi ospiti, vorrei anzitutto ringraziarVi dell’onore che mi avete fatto invitandomi a partecipare ai lavori di questo Convegno, ed – al tempo stesso – pregarvi di portare pazienza se il mio intervento poco potrà aggiungere da un punto di vista scientifico a quanto qui si produce. In realtà io sono un manovale del Diritto, un operatore che –per collocazione istituzionale– si trova prevalentemente a fare i conti con la problematica dell’effettività della norma, della sua efficacia quotidiana. E se questo non può, indubbiamente, essere disgiunto da una riflessione teorica quanto più accurata possibile sulla natura, il fondamento, la posizione sistematica degli Istituti giuridici che la pratica penitenziaria si trova ad affrontare ed applicare; ciò nondimeno, non sarebbe da parte mia intellettualmente onesto non confessarVi che l’entità di una tale riflessione è spesso insufficiente, soverchiata dall’urgenza delle cose, dall’agitarsi delle fattispecie –per così dire- in un movimento talvolta disordinato e convulso.
   Credo perciò che, se un piccolo contributo posso offrire a questa riflessione, esso debba necessariamente avere come premessa un dato sorprendente e, per taluni versi, allarmante: ovverosia la scarsa rispondenza tra previsioni normative e realizzazioni pratiche, nel sistema dell’esecuzione penale italiano contemporaneo. Ciò accade, paradossalmente, nella regione del Diritto dove più penetrante si fa il precetto della norma, sino al punto di prevedere, storicamente, il massimo grado di sofferenza per la sua violazione: la perdita della libertà personale e, in tempi fortunatamente oramai remoti, addirittura la perdita della vita. Ora, credo sia necessario riflettere sul fatto che, proprio nella fase della esecuzione della pena, baluardo estremo posto a tutela dell’effettività della norma, più consistente tende a farsi la distanza tra l’Istituto giuridico così come pensato dal legislatore e la sua concreta applicazione. Questo tipo di riflessione è, del resto, anche alla base dello sforzo che ha condotto all’elaborazione del nuovo regolamento di attuazione della Legge penitenziaria italiana, la L. 354 del 1975. Il Regolamento – che a differenza della legge, viene predisposto direttamente dal governo ed approvato con Decreto del Presidente della Repubblica, costituendo così uno degli esempi classici di normazione secondaria – andrà a sostituire, presumibilmente entro la fine dell’anno, quello attualmente vigente, approvato con decreto del Presidente della Repubblica n° 431 del 1976. Rispetto al tema della effettività, un intervento di normazione secondaria assume peraltro una importanza fondamentale, essendo potenzialmente idoneo a spezzare il circolo perverso attualmente vigente tra leggi virtuose ed illuminate e prassi distorte e contraddittorie.
    "(…) L’inadeguatezza alla legge del carcere reale non può ancora a lungo essere accettata” (pag. 5): sono testuali parole della relazione governativa di accompagnamento alla bozza finale del Nuovo Regolamento; si tratta in buona sostanza di dare attuazione alla norma costituzionale dell’art. 27, la quale disegna l’esecuzione penale come tesa alla rieducazione e risocializzazione del reo. A livello di norme fondamentali, non vi è dunque dubbio alcuno che la concezione retributiva della scuola classica penale è stata oramai superata da parecchi decenni, in questo accogliendo con coerenza sistematica anche le numerose direttive e raccomandazioni della Comunità Europea.
   Il regolamento opera su diverse direttrici, in alcuni casi limitandosi ad un intervento apparentemente poco incisivo di mera “razionalizzazione”, omogeneizzando prassi differenti all’interno degli Istituti Penitenziari, tali da configurare sostanzialmente differenti tipi concreti di esecuzione penale sullo stesso territorio nazionale. In altre occasioni, la razionalizzazione introduce vere e proprie modifiche normative, limitando spazi di discrezionalità amministrativa o eliminando limitazioni alla concessione di determinati benefici. E’, ad esempio, quanto accade in tema di colloqui con le famiglie da parte dei reclusi, o, ancora in tema di possibilità per i detenuti di disporre di nuovi strumenti di lavoro e di studio, quali i personal computer. Si tratta, in questi casi, di interventi normativi rispondenti alle “Regole Minime del Consiglio d’Europa” sulla “costante evoluzione degli standard qualitativi” in ambiente penitenziario.
   Una terza tipologia di interventi è invece volta al riconoscimento di veri e propri diritti, precedentemente non contemplati: è quanto accade, ad esempio, in tema di assistenza sanitaria o, ancora, di trattamento delle detenute madri e dei loro bambini.
   Per esigenze di sintesi, prenderò in esame, in questa sede, due temi che mi sembrano di grande importanza nel concreto svolgersi dell’esecuzione penale ed, al tempo stesso sufficientemente paradigmatici delle problematiche che pervadono complessivamente il tema in questione: il trattamento penitenziario ed il lavoro dei detenuti.
2. Il Trattamento penitenziario
    “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. (…) Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari. (…) Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”
   L’art. 1 della legge Penitenziaria individua, in realtà, due differenti tipologie di trattamento penitenziario: una prima, comune a tutte le persone ristrette, che potremmo più opportunamente definire “regime penitenziario” costituita dall’insieme delle norme che disegnano la mappa delle situazioni giuridiche soggettive dei reclusi nei confronti dell’amministrazione penitenziaria: diritti soggettivi, interessi legittimi, soggezioni, facoltà, oneri.
   Una seconda tipologia è, viceversa, costituita da quello che , più propriamente, è il trattamento c.d. “rieducativo” ed ha per ambito di applicazione soggettiva i “condannati con sentenza definitiva” e gli “internati” secondo la lettera della legge.
   Quanto alla prima categoria, nulla quaestio: è condannato colui che ha a proprio carico sentenza divenuta irrevocabile o per mancato esperimento di gravami, o per avere percorso l’intero iter dei due gradi di giudizio di merito e/o l’eventuale pronuncia di legittimità da parte della Suprema Corte di Cassazione.
   La categoria degli internati è invece costituita da coloro che, non essendo stati ritenuti responsabili della commissione di reati (o avendo già scontato la pena per il reato prevista e irrogata) sono assoggettati non ad una pena ma ad una misura di sicurezza detentiva, avendo dato adito – con il proprio comportamento – ad un giudizio di pericolosità sociale da parte dell’organo giudiziario. Si tratta del cosiddetto “doppio binario” (pena – misura di sicurezza), vero e proprio strappo dell’ordinamento giuridico liberale, residuo di oscuri periodi di segregazione per un giudizio sulla persona piuttosto che sul fatto. La gran parte degli internati risiede attualmente, negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, veri e propri manicomi criminali sopravvissuti anche alla legislazione abrogativa dell’istituzione psichiatrica totale, approvata in Italia con la legge 180 del 1978.
   Ora, in tema di trattamento rieducativo, alcuni dati di fatto devono essere posti nella dovuta evidenza.
   Il primo si riferisce alla massiccia presenza, nelle carceri italiane, di detenuti in attesa di giudizio, dunque non assoggettabili alla gamma degli interventi educativi. Tale presenza è stata, sino al 1995, ben oltre la percentuale del 50%. Ciò si deve, in misura pressoché esclusiva, alla eccessiva durata dei processi penali nel nostro ordinamento: a tale proposito, vanno facendosi ben più che sporadiche le pronunce della Corte di Giustizia europea che, stigmatizzando l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare da parte del sistema penale italiano, configurano la presenza di veri e propri casi di “ingiusta detenzione”. Il tema è stato anche oggetto di attenzione da parte del Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti.
   Va poi registrata la presenza, altrettanto massiccia, nei penitenziari italiani, di detenuti extracomunitari, rispetto ai quali si propongono particolari problematiche di comunicazione, a partire da una difficoltà linguistica, sino a giungere alla scarsa comunicabilità di codici etici e comportamentali spesso sideralmente distanti. E’ intuitivo come su tale tipologia di detenuti un intervento “ordinario”, calibrato su un’utenza italiana o, comunque di cultura europea rischi di essere assolutamente inefficace. Non si tratta di tema di poco momento, se solo si pensa che la percentuale di tale presenza si aggira – mediamente – sul 40% delle persone recluse.
   Infine, va registrata la presenza – quantificabile intorno al 30% - di reclusi tossicodipendenti. Tale ultimo dato si rivela, sotto molteplici profili, particolarmente allarmante. In primo luogo, va registrato un primo tema riguardante la stessa sicurezza all’interno degli Istituti: l’accoglienza e la gestione del detenuto tossicodipendente, delle sue crisi di astinenza da sostanza stupefacente ingenera una serie di problemi di difficilissima soluzione, legati – in prima battuta – al quotidiano tentativo di introduzione di sostanze stupefacenti all’interno del carcere. Addirittura si registrano diversi casi di persone che deliberatamente si fanno arrestare per reati minori, nel tentativo di introdurre all’interno delle carceri massicce quantità di stupefacenti. Inoltre, anche in questo caso, rischia di risultare inefficace un intervento compiuto da personale non adeguatamente qualificato sulla specifica problematica della tossicodipendenza.
   Questa ultima considerazione mi consente di introdurre il tema relativo al personale penitenziario specificamente adibito all’effettuazione di interventi rieducativi sui condannati ed internati: è quella che viene definita “area del Trattamento”. Essa è costituita, in primo luogo, dalla figura professionale dell’educatore, i cui compiti sono, al tempo stesso, di progettazione, coordinamento e realizzazione degli interventi sull’intera popolazione detenuta e sul singolo recluso: accanto ad essi, alla figura dell’educatore sono demandati incarichi relativi alla predisposizione di relazioni ed informazioni relative all’evolversi della personalità del detenuto, da comunicarsi all’autorità giudiziaria da cui lo stesso detenuto dipende, vale a dire – per quanto concerne condannati ed internati – al magistrato di sorveglianza. Ebbene, oggi in Italia, su una popolazione che si aggira sui 52.000 detenuti, sono più o meno cinquecento gli educatori in servizio, con un rapporto operatore/detenuto che si aggira attorno alla proporzione di uno a 150. Nessun educatore è stato assunto da meno di dodici anni, essendo da tale periodo che non si bandiscono più concorsi per questa figura professionale. A tali concorsi si accede con il diploma della scuola secondaria, non essendo previsto tra i requisiti né la laurea, né specifica specializzazione in discipline pedagogiche.
   La disciplina normativa relativa ai contenuti degli interventi trattamentali, prevista all’art. 15 della legge penitenziaria contiene scarne indicazioni: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro. Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione giuridica.”
   Escluso il tema del lavoro, di cui tratteremo tra poco, è da rilevare la genericità – per un verso delle indicazioni contenute nella norma - ; d’altra parte è forse opportuna una riflessione circa lo scarso valore pratico dell’indicazione relativa alla religione , forse non più del tutto aderente ad una realtà così religiosamente frammentata quale quella attualmente presente nelle carceri italiane e, credo, europee. Ciò non significa, come è evidente, una negazione del diritto di professare la propria confessione da parte del singolo detenuto, che viceversa deve essere garantito con la massima intensità ed energia; più semplicemente si ha l’impressione della inidoneità di tale professione di fede a costituire elemento del trattamento, in virtù della sua appartenenza alla sfera più intima e privata del singolo.
   Secondo il dettato normativo vigente ogni intervento trattamentale deve prendere le mosse da un’attività di “osservazione scientifica della personalità” (art. 27 Regolamento es. vigente) condotta dall’équipe detta appunto di osservazione e trattamento, la quale è composta dal Direttore dell’Istituto, dall’educatore, dall’assistente sociale e dallo psicologo. In aderenza con il dettato della legge di smilitarizzazione della polizia penitenziaria (l.395/1990), che all’art. 5 assegna agli appartenenti al Corpo di polizia compiti di collaborazione nell’opera trattamentale, alle riunioni dell’équipe partecipa anche un rappresentante della Polizia stessa.
   L’organismo così disegnato, dopo avere proceduto all’ ”acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, biologici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento” formula un “programma individualizzato di trattamento, il quale è compilato nel termine di nove mesi”.
   Ebbene, si tratta di uno dei punti in cui più grande appare la distanza tra quanto previsto e quanto effettivamente realizzato. In realtà, la percentuale di piani di trattamento elaborati secondo la normativa ed approvati dal magistrato di sorveglianza, come previsto dalla legge, è assolutamente irrisoria rispetto al numero dei condannati e degli internati. Solitamente si procede così come prescritto solo nei casi in cui il programma di trattamento preveda l’esperimento di misure esterne, quali il lavoro extracarcerario o la fruizione di permessi premio.
   Basti pensare, a questo proposito, che il nuovo regolamento si limita a modifiche di poco momento, prevedendo – in buona sostanza – un meccanismo di continuità nell’opera trattamentale anche allorquando il detenuto venga trasferito da carcere a carcere, continuità a tutt’oggi assente, stante la mancata esecuzione dell’art. 26 che prevede la compilazione di una cartella personale del detenuto che lo segua all’interno dei suoi spostamenti nel sistema penale.
    Viceversa nella bozza di nuovo regolamento, non vi è traccia di modifiche sostanziali sui contenuti del trattamento e ciò sulla scorta della considerazione, contenuta nella relazione illustrativa predisposta dal Governo, secondo la quale “” il regolamento di esecuzione non può dire (a questo proposito: N.d.A.) molto di più di quanto non dica il testo vigente. Il problema qui non è rappresentato dalla normativa, ma dalla sua applicazione, ancora incompleta per le povertà organizzative attuale della amministrazione penitenziaria.”
3. Il lavoro dei detenuti
    Uno degli elementi fondamentali del trattamento è costituito, come abbiamo visto, dalla attività lavorativa da parte dei detenuti. L’argomento si presenta tanto interessante quanto intricato, sotto molteplici profili. Una prima distinzione va compiuta tra lavoro c.d. “intramurario” ed “extramurario”. Se per il secondo il problema riguarda quasi esclusivamente il reperimento di imprese ed enti disposti ad assumere, in un Paese che oggi presenta un tasso medio di disoccupazione del 12%, alle proprie dipendenze persone sottoposte a misure di carattere penale; per quanto riguarda il tema dei lavori all’interno del carcere qualche ulteriore precisazione si impone.
   Nell’assetto tradizionale degli equilibri all’interno del carcere, l’assegnazione dei detenuti ai c.d. “lavori domestici” è prevalentemente appannaggio della polizia penitenziaria, che usa tale potere per garantirsi informazioni sugli umori, le intenzioni, i progetti all’interno delle sezioni detentive. Ciò, se d’un lato può accrescere i tassi di sicurezza all’interno dell’Istituto, aggirando il tradizionale muro di omertà delle persone recluse nei confronti dello staff carcerario, comporta d’altra parte una serie di conseguenze negative riconducibile essenzialmente a tre ordini di problemi.
   In primo luogo, una tale gestione della risorsa del lavoro, rischia sostanzialmente di svilire la valenza rieducativa del lavoro stesso, non più concepito come uno strumento per un reale e convincente percorso di cambiamento, ma viceversa come una ricompensa per la delazione pura e semplice. Questa osservazione, che qui – per esigenze di sintesi – non può essere adeguatamente sviluppata, chiama peraltro in causa la tematica complessa e delicata delle risposte che l’Istituzione stato mette in campo di fronte al fenomeno della delazione, tema assai generale che in Italia ha visto e vede tuttora oscillazioni significative nelle scelte di politica criminale, a seconda del momentaneo prevalere di esigenze di sicurezza sociale o di trasparenza e coerenza nel rapporto tra Stato e singolo.
   Va inoltre rilevato come la crescita della sicurezza carceraria conseguente a tale gestione della risorsa-lavoro all’interno degli Istituti sia – in realtà – più apparente che reale. Uno dei primi messaggi – se non il primo in assoluto–che viene trasmesso a chi entra nel penitenziario per la prima volta è che non bisogna mai confidarsi con i detenuti che lavorano, ai quali non rimane dunque che raccontare chiacchiere irrilevanti, se non addirittura frutto di pura fantasia.
   Infine, questo modello di gestione, rischia addirittura di produrre – paradossalmente – effetti assolutamente opposti rispetto a quelli desiderati. In altri termini, è più facile che il detenuto c.d. lavorante, considerato dalla polizia uomo di fiducia, raccolga informazioni sull’organizzazione dello staff, piuttosto che su quella dei compagni di detenzione e, di conseguenza, sia in grado di disporre il flusso comunicativo nella direzione inversa rispetto a quella prevista, non più dai ristretti allo staff, ma – viceversa – dall’istituzione ai ristretti.
   Alla luce di queste osservazioni, non vi è dubbio che la recente formulazione, all’interno dell’ordinamento penitenziario, dell’art. 20 (avvenuta con la legge n° 296 del 1993), che dispone una rigida procedura di formazione delle graduatorie dei detenuti aspiranti ad un impiego lavorativo, rappresenti un notevole passo avanti nella direzione di una gestione più efficace e trasparente dell’intera Istituzione carceraria. In particolare, l’articolo richiamato, prevede che alla formazione di tali graduatorie sia adibita una apposita commissione di istituto “composta dal direttore, da un appartenente al ruolo degli ispettori o dei sovrintendenti del Corpo della Polizia Penitenziaria e da un rappresentante del personale educativo, eletti all’interno della categoria di appartenenza”, nonché da due rappresentanti dei sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentativi rispettivamente a livello nazionale e locale ed, infine, da un rappresentante del Ministero del lavoro. Tale Commissione deve basarsi, ai fini dell’assegnazione al lavoro, esclusivamente sui criteri oggettivi della anzianità di disoccupazione involontaria e sui carichi familiari degli aspiranti, analogamente a quanto previsto dalla normativa generale per i cittadini liberi in cerca di occupazione. A tutt’oggi si deve purtroppo constatare la pressoché completa inattuazione della norma, in parte per difficoltà di carattere organizzativo, in parte per la fortissima resistenza opposta da parte della Polizia Penitenziaria, non disgiunta dal disinteresse dimostrato dai rappresentanti sindacali e del Ministero del Lavoro. La stessa relazione governativa sul Nuovo regolamento si esprime con molta franchezza: ”si deve riparare una gravissima mancanza di risorse lavorative interne. Riescono a lavorare meno del 15% dei detenuti. Ciò rappresenta una violazione della previsione dell’art. 20 della legge, per quanto concerne i condannati e gli internati”, (…) nonché dell’art 15, per quanto concerne gli imputati.
    La strada intrapresa dal nuovo regolamento consiste nel potenziamento delle cosiddette “lavorazioni” artigianali, tradizionali attività all’interno degli istituti, cadute ultimamente un po’ in disuso: falegnamerie, concerie, officine meccaniche etc; nella previsione della possibilità di impiegare cooperative sociali nei lavori all’interno degli Istituti; nella previsione del lavoro a domicilio da parte dei detenuti.
4. Considerazioni conclusive
    L’interrogativo emergente dalle scarne e frammentarie riflessioni che ho tentato di proporre qui, a me pare riguardi specificamente – al di là delle soluzioni normative adottate nella gestione dell’esecuzione penale interna a gli istituti – proprio la distanza preoccupante che separa istituti giuridici e prassi applicative. A tale interrogativo – che pervade l’intera materia, al di là dei due temi che ho tentato di illustrare – credo sarebbe riduttivo rispondere, come pure spesso non si manca di fare, con argomentazioni concernenti carenze di risorse, umane e materiali. Queste esistono al di là di ogni dubbio, ma lungi dal costituire delle risposte, sembrano piuttosto delle ulteriori angosciose domande. Delle due infatti l’una: o si teorizza che la confusione organizzativa sia un dato fisiologico ed immanente a qualsiasi funzione svolta dallo stato apparato (e francamente, non mi pare che così sia, esistendo senza dubbio soluzioni all’avanguardia per efficienza ed efficacia, sia pure in altri settori di intervento pubblico); oppure viceversa si prende atto che le disfunzioni in questo campo rischiano di assumere non carattere accidentale, bensì di scelta politica.
   Si tratta di scelte non dichiarate, senza dubbio, ma piuttosto – come dire? – in rebus ipsis. Il sistema dell’esecuzione penale rischia però, in virtù di messaggi contraddittori ed incoerenti da parte del potere politico, di rimanere confinato in una sorta di schizofrenia, tra leggi tanto illuminate quanto inattuabili e prassi tanto diffuse quanto distorte. Parallelamente alla norma scritta, che garantisce, nella nostra cultura giuridica certezza del diritto oggettivo e concreta azionabilità di quello soggettivo, cresce e prospera una sorta di ordinamento ombra, discrezionale ed ondivago, inappellabile e, in parte, inconoscibile.
   In questo senso due fatti accaduti di recente sono di una chiarezza illuminante: il primo riguarda la proposta di creazione all’interno della amministrazione penitenziaria, della figura dell’ombudsman, o difensore civico. Si tratterebbe senza dubbio di una innovazione in grado di mettere in crisi la coesistenza pacifica di leggi scritte e prassi confliggenti. Purtroppo la proposta di legge relativa giace in Parlamento oramai da qualche anno, unitamente ad un’altra che, recependo numerose raccomandazioni della Comunità Europea, introduce nel nostro Codice Penale il reato di tortura.
   D’altra parte, una recente sentenza della Corte Costituzionale, (n° 26 del 11.02.1999), pur stabilendo il principio della ricorribilità da parte dei detenuti avverso le decisioni dell’Amministrazione Penitenziaria innanzi ad un organismo giurisdizionale, ne condiziona il concreto esercizio all’emanazione di normativa specifica da parte dell’organo legislativo, nella acuta consapevolezza di quale effetto dirompente potrebbe avere l’immediata azionabilità dei ricorsi da parte del cittadino detenuto.
    E’ mia modesta opinione che ciò dipenda, almeno in parte da un problema di carattere culturale, che ha condotto – in modo tutt’altro che lineare – ad una sorta di compromesso tra istanze politiche contrapposte. In virtù di tale compromesso, è stato possibile varare norme di grande apertura, che disegnano una esecuzione rispettosa della dignità della persona e tesa al sostegno ad un possibile cambiamento degli stili di vita devianti. Ma al tempo stesso a tali norme si è tacitamente attribuito carattere programmatico, di obbiettivo cui tendere, piuttosto che di immediata ed inderogabile cogenza. Ciò riguarda sia la norma costituzionale, sia la legge penitenziaria. Mi permetto di formulare qui l’auspicio che diversa possa essere la sorte del nuovo regolamento penitenziario, che mi auguro possa divenire concreto strumento per un autentico salto di qualità in un’esecuzione delle sanzioni penali maggiormente coerente ed ispirata a valori di autentica democrazia.
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ISTITUTI, MODALITÀ E TENDENZE NEL SISTEMA DELL’ESECUZIONE PENALE ITALIANA: ELEMENTI PER UN CONFRONTO CON L’ESPERIENZA SPAGNOLA
Domenico Arena

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FECHA DE PUBLICACIÓN EN RECPC: 7 de agosto de 2000



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